Roberta Bommassar: con il Covid si muore da soli, un dolore atroce, si perde anche l’ultimo addio

I pazienti muoiono soli, nelle terapie intensive, lontani dai propri cari ai quali non possono dire addio. Roberta Bommassar, presidente dell’Ordine degli Psicologi di Trento, intervistata da Adriana Viesi , spiega che in ogni relazione ci sono tanti piccoli conti in sospeso, fisiologicamente. Quando arriva la fine, sia chi se ne va sia chi resta, sa che in un certo senso può riparare queste mancanze. Questo virus, invece, lascia dietro di sé solo il rimpianto del non detto e del non fatto. Il virus ci sta mettendo di fronte a prove per le quali, probabilmente, non eravamo pronti. ” E’ la peggior crisi dal dopoguerra“, si bisbiglia da più parti. Certamente, questo periodo, lascerà ferite profonde con le quali, inevitabilmente, dovremo fare i conti. Ognuno affronta la paura come può.

L’Italia, oggi, è un Paese diviso in tre. Ci sono quelli che combattono, in prima linea: medici e sanitari, forze dell’ordine, personale di supermercati e farmacie. Un’Italia che non si ferma. Ci sono quelli a cui è chiesto (solo) di starsene a casa, in pantofole. C’è chi, poi, da questa tragedia, è toccato direttamente . I numeri che, ogni sera, ci passano davanti sullo schermo sono volti: di mamme e papà, nonne e nonni, mariti, mogli. Sono i volti dei malati, e dei loro cari. I volti di chi ce l’ha fatta, di chi sta combattendo, di chi se n’è andato. Sulle loro spalle grava il peso maggiore di questa tragedia: con questo virus si muore soli e, a chi resta, è preclusa la possibilità di dire addio ai suoi cari. Sarà un lutto “mutilato”, il nostro.

Roberta Bommassar, psicologa, alll Università di Padova

Essere presenti nel momento di difficoltà della persona a noi cara è molto importante – spiega Roberta Bommassar – penso alla situazione ‘canonica’ di un figlio che dice addio a un genitore: accompagnare verso la fine il proprio padre o la propria madre è un modo per restituirgli/le quanto ha fatto per noi. Questo può aiutare ad alleggerire la nostra sofferenza“. “Il fatto di non poter essere presenti nel momento della morte – aggiunge – è una sofferenza in più . Il saperli da soli, il sapere che in quel momento la tua mancanza viene sentita in modo particolare è un ulteriore motivo di sofferenza” Come ci spiega la dottoressa, spesso in questi casi scatta un meccanismo (paradossale) di auto-colpevolizzazione. Non potendo garantire la propria presenza, ci si sente (a torto) in colpa. “Sono meccanismi ingiustificati, che non hanno una logica – spiega Bommassar – Se le condizioni ti impediscono di essere presente in un momento che sai può essere la fine, ti viene tolta la possibilità della “riparazione”.

La “riparazione” è quel momento, umano e speciale, in cui chi rimane e chi se ne sta andando si riconciliano e sistemano quanto è rimasto sospeso. Un momento fondamentale, soprattutto per la successiva elaborazione del lutto. “In tutte le relazioni, per quanto buone, c’è sempre qualcosa di sospeso. Spesso si sono fatte cose che non si volevano fare, o magari non si è detto qualcosa che invece si avrebbe voluto dire” . Questo virus, invece, lascia dietro di sé solo il rimpianto del non detto e del non fatto“.

Quello che affrontano le persone che perdono i propri cari in questo momento – spiega Bommassar – sono senso di colpa e disperazione, un dolore tremendo da affrontare”. Accompagnare le persone che amiamo mentre se ne stanno andando è importante: lo è per loro, e lo è per noi. La dottoressa Bommassar ha una pluriennale esperienza anche negli hospice e ha voluto parlare di questo fondamentale momento della vita (perché è della vita che fa parte – anche – la morte). “La cosa che mi ha colpito tantissimo degli ambienti dedicati alle cure palliative è che, lì, tutti sanno che stanno per morire. Eppure gli hospice sono ambienti che offrono un livello di serenità impensabile perché le persone, lì, non affrontano da sole la morte e, soprattutto, la morte non viene negata. La morte fa paura e per questo spesso la si rimuove. Ma parlarne scaccia l’angoscia. Stare accanto a qualcuno che sta per morire dona serenità sia a chi se ne va sia a chi resta“.

I pazienti affetti da Covid-19, invece, muoiono soli, in un reparto di terapia intensiva. Nessuno si può avvicinare, se non i sanitari calati nelle loro tute asettiche. Nelle zone più colpite, sono proprio loro, spesso, a dare l’estrema unzione se richiesta. I familiari sono lontani, stretti tra le mura di casa, magari anch’essi contagiati. Il dolore di chi resta, poi, è reso ancora più acuto dalla straordinarietà della situazione in cui si trovano e, sostanzialmente, non si celebrano (o si celebrano a fatica) i funerali.

Al posto del funerale automezzi dell’esercito, di notte, trasferiscono bare nei cimiteri

Poi sì, c’è il dramma nel dramma – commenta Bommassar -, non puoi nemmeno fare il funerale. Il funerale è un modo rituale con cui la famiglia (e questo accade in tutte le società) condivide con il gruppo sociale quello che il defunto ha dato a lei e alla comunità. Durante il funerale spesso c’è un recupero di quello che il defunto è stato. Celebrare un funerale è un modo per ringraziare chi se ne va per quello che è stato e per quello che ha fatto“.

Il lutto ai tempi del Covid- 19 non permette di sanare le cose lasciate in sospeso, spezza i “grazie” che si sarebbero voluti dire, soffoca le carezze. Il lutto ai tempi del Covid-, passa attraverso le (consuete) fasi di elaborazioni ma rischia di non concludersi. 

Nella prima fase del lutto – spiega – si fatica ad arrivare alla consapevolezza (si cerca di negare il pensiero) e si è in preda all’angoscia. Si passa poi alla rabbia, al rifiuto attivo, si percepisce un senso di ingiustizia, ci si chiede: ‘perché è successo a me?’ o si cercano capri espiatori verso cui indirizzare la propria rabbia“.

Freud sostiene che, dopo le prime fasi di elaborazione, si arriva a quella dell’introiezione della persona morta. Si ricostruisce, mentalmente dentro di sé, l’immagine della persona che ci ha lasciato. Se si ha avuto la possibilità di vivere bene e in modo adeguato le fasi precedenti, quell’immagine ti calma e, così, si elabora definitivamente il lutto. Se riusciamo ad elaborare correttamente il lutto (ad esempio per la perdita di un genitore), ci sentiamo dei buoni figli e quella figura interna che ri-costruiamo avrà caratteristiche positive. Se, invece, rimangono dei non detti, delle questioni in sospeso, è come se il processo venisse interrotto. E questo ha conseguenze psicologiche a lunghissimo termine“.   Non riuscire ad elaborare un lutto significa rimanere sospesi in un limbo che preclude qualsiasi possibilità di essere felici, un limbo che colpevolizza la felicità. “Quando riusciamo ad elaborare il lutto, sentiamo di esserci riconciliati con la figura che ci portiamo dentro ed è come se ci autorizzassimo ad investire di nuovo. Il lutto non elaborato, al contrario, ci fa sentire in colpa a essere felici. Senti la felicità come un torto, ti senti colpevole. E’ quello che accade, ad esempio, ai genitori che perdono un figlio: la morte di un figlio è contro natura. Sono i figli che devono accompagnare al cimitero i propri genitori, non il contrario“.

Se l’attenzione, fino ad ora, è stata rivolta a chi resta che, inevitabilmente, si trova a dover fare i conti con un dolore straziante, un pensiero va anche ai tanti (troppi) che ci stanno lasciando. “La morte ai tempi del Covid-19 – spiega la psicologa – è una morte medicalizzata. Al di là degli operatori sanitari, i pazienti muoiono soli. E c’è, in questa morte, una doppia solitudine. Si muore senza i propri cari che non possono essere lì. E, spesso, ci si colpevolizza per questo, perché si pensa all’angoscia che può provare, ad esempio, un figlio. Si muore soli perché anche i sanitari non riescono, ovviamente, a garantire quella vicinanza di cui i pazienti avrebbero bisogno. Credo sia durissima. Chi se ne va non può dire qualcosa a chi resta e viceversa. Non ci si possono scambiare gli ultimi ‘regali’, i più preziosi“.

La morte, in questi giorni, è entrata prepotentemente nelle nostre case. Ci ha svegliati dal torpore, ci ha presi a pugni nello stomaco. Tutti abbiamo visto la colonna militare a Bergamo trasportare, altrove, le salme dei morti. Tutti abbiamo pianto su quelle immagini. Ma venire a patti con la morte è, secondo la psicologa, inevitabile e (forse), in un certo senso, salvifico. “Questa è anche frutto, in termini culturali, della nostra storia recente – conclude Roberta Bommassar – negli ultimi decenni c’è stata una progressiva esclusione della dimensione della morte che è stata rimossa da qualsiasi discorso, pubblico e privato. Quella a cui stiamo assistendo è una doccia fredda, difficile da affrontare. Può però aiutarci a capire che la morte fa parte della vita ed è un passaggio inevitabile.  Far diventare  la morte una cosa, mi si passi il termine, ‘sterile’ e lontana non aiuta perché poi quando ci troviamo in mezzo a situazioni simili abbiamo poche risorse per affrontarla. Bisogna parlarne, guardarla in faccia. Credo anche che certi reportage che passano in televisione in questi giorni, in un certo senso, facciano bene. Quella è la realtà, rimuoverla non serve a nulla. Dobbiamo iniziare a riconsiderare la morte come parte della vita“. 

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