Recensione Oppenheimer
di Samuele Lupi
Prometeo rubò il fuoco agli dei e lo diede all’uomo, per questo venne incatenato ad una roccia e torturato per l’eternità.” Christopher Nolan porta sul grande schermo una storia americana, anzi… una storia mondiale. Ebbene sì, perché l’esplosione della bomba atomica, raccontata in Oppenheimer, è stato l’evento forse più importante ed impattante del ventesimo secolo. Lo è stato nel modo in cui ha sancito, come suggerisce anche lo stesso film, non solo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ma anche l’iniziodella Guerra Fredda.
Ci troviamo negli Stati Uniti e il protagonista omonimo al titolo è un fisico ebreo tormentato, ma dal potenziale inimmaginabile. Ha legami con alcuni militanti del partito comunista, uno dei quali è suo fratello Frank. Dopo aver notato alcuni studi, l’esercito americano commissiona allo scienziato di guidare il progetto Manhattan, che prevede la realizzazione di un’arma di distruzione di massa. In questo modo, insieme ad altri colleghi, danno il via ad una corsa contro il tempo per lavorare alla bomba ad idrogeno, prima che i tedeschi possano anticiparli. Quello che succede dopo è storia.
Quanto va supportato il progresso scientifico in certi casi? Quali sono i rischi che l’umanità è disposta a mettere in gioco in determinate circostanze? Nolan non sa darci la risposta. Non ne ha nemmeno le facoltà per farlo, probabilmente. Non tenta di raccontare solo la drammaticità degli eventi, ma anche lo smarrimento emotivo del protagonista. Su questo fronte, l’attore Cillian Murphy è devastante. Fino ad ora, il regista lo aveva solo – ma spesso – chiamato a corte per ruoli secondari. Questa volta gli dà fiducia e non sbaglia nel farlo. L’attore irlandese è capace di concedersi al servizio della macchina da presa, regalandoci un’interpretazione di introspezione. Una vera e propria radiografia dei sentimenti. Dai sogni di gloria alla caduta morale.
Tuttavia, Cillian Murphy è solo un capitano. Il capitano di una strabiliante squadra di attori: dal solito Matt Damon ad un inedito Robert Downey Jr. in un ruolo per un film simile. Lontano dalla Marvel, l’attore dà grande prova delle sue doti attoriali – di cui c’erano in realtà pochi dubbi – ma soprattutto della sua versatilità. L’interprete newyorkese si cala nei panni di Lewis Strauss, una sorta di coprotagonista nelle parti del film interamente in bianco e nero. Nolan, infatti, regala una narrazione pluriprospettica della vicenda: le scene a colori catturano il punto di vista del protagonista, mentre quelle in bianco e nero parlano per Strauss.
Il film è scritto bene. Le sceneggiature scritte lontano dal fratello Jonathan si erano dimostrate più povere rispetto a quelle lavorate al suo fianco, ad eccezione, forse, di Inception. In questo caso, invece, il racconto dimostra minuziosità nella narrazione, rendendolo probabilmente tra i suoi film migliori. Anche la regia è impeccabile, ed il montaggio è talmente incalzante da rendere scorrevole un film di tre ore. La fotografia è curata nei minimi dettagli, eanche senza Hans Zimmer, la colonna sonora di Ludwig Goransson è da Oscar, capace di avvolgere il pubblico in un abbraccio in grado di portarci al di là della materia.