Recensione Io Capitano
di Samuele Lupi
Quasi tremila anni fa, Omero scrisse uno dei più grandi poemi epici della storia, l’Odissea. Il racconto narrava del tortuoso ed eroico viaggio del soldato Ulisse verso la sua amata Itaca, di ritorno dalla Guerra di Troia, narrata nell’Iliade.
Matteo Garrone, invece, non racconta di un viaggio di ritorno. Parla, piuttosto, di un viaggio di sola andata, se si riesce a concluderlo. Un viaggio il cui motore è la speranza, che non muore mai, ma che muore se muori, e che vive se vivi: percorrere l’Africa per raggiungere l’Europa. Percorrere la morte per raggiungere la vita, o comunque una vita idealizzata. Io capitano è il suo nuovo film, interamente recitato in senegalese, presentato in anteprima mondiale all’ottantesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, vincitore sia del Leone d’argento alla regia, che il Premio Marcello Mastroianni all’attore protagonista Seydou Sarr.
Seydou e Moussa, interpretati in modo convincente da Seydou Sarr e Moustapha Fall, sono due giovani senegalesi di sedici anni, che prendono la fatidica scelta: quella di compiere il grande viaggio. Hanno lavorato per mesi, di nascosto dalla loro famiglia, per essere economicamente pronti o, perlomeno, pensare di esserlo. Sì, perché il viaggio è da molti considerato un suicidio. Ma la prospettiva di una possibile, ed esclusivamente ipotetica, vita migliore nei grandi paesi “civilizzati” europei, con anche l’obiettivo diaiutare i propri cari rimasti in patria, è abbastanza suggestiva da far compiere, a questi disperati, una gara con la morte.
Qui sorge il primo dubbio. Perché disperati? Intendiamoci, chiunque affronti quel viaggio, oltre che dalla speranza, è guidato dalla disperazione. Oppure è solo molto sciocco. Èproprio questo il punto. Il film non racconta da cosa stanno fuggendo i protagonisti. Non fuggono da niente. Non c’è traccia né di una guerra, né di una povertà ai limiti della sopravvivenza. Potremmo dibattere per ore sulla scelta di Garrone. È così? Non fuggono da nulla, come sostiene una fetta della politica italiana? Forse vuole solo mostrare l’incoscienza di due adolescenti in preda ai sogni, che quindi non si rendono conto? Che cosa?
Il lungometraggio si limita a raccontare questa migrazione sfiancante, ma non sappiamo come sarà la loro vita in Italia. Non sappiamo se firmeranno i contratti ai bianchi, come ambivano tanto. Non sappiamo nemmeno se, come molti fanno, dormiranno per strada, come quel reduce dal viaggio gli aveva detto riguardo alla situazione europea, tentando di dissuaderli. Non sappiamo nulla, che di per sé va bene, ma che, avendo considerato l’inizio del film, lascia delleperplessità sul “sai quello che lasci, ma non sai quello che trovi”. Il regista vuole lasciare questo dubbio, lasciando che ognuno di noi abbia il proprio finale.
Il film è strutturato in capitoli, circoscritti all’interno dell’ambientazione e della situazione in cui si trovano i personaggi. Si parte dalla quotidianità di una città senegalese, nei primi venti minuti, quando i sogni sono ancora vivi, per poi passare al viaggio. Dagli ostacoli di un deserto che sembra inghiottire chiunque ci passi attraverso, fino alle torture nei centri di detenzione libici. Poi si riaccende la speranza, per poi dover affrontare le insidie del Mar Mediterraneo. Il film segue una linearità narrativa, basata su step ben precisi in cui, forse a tratti in modotroppo ottimista, Seydou riesce a cavarsela. Sempre.
D’altronde, il regista romano aveva già approcciato a schemi narrativi simili, basti pensare a Il racconto dei racconti o Pinocchio, ed anche in questo caso riesce ad approcciare con grande maestria al film, concedendosi un’ottima regia. Forse anche troppo, in certi momenti. Vuole catturare immagini belle, in una fotografia perfettamente riuscita, in modo quasi compulsivo. Il suo formalismo, a tratti, rischia di sovrastare l’intreccio. Un po’ come nell’ultima scena, quando il primo piano su Seydou riflette tutto il suo cocktail di soddisfazione, nervosismo e commozione, pronunciando le parole: “Io capitano!”. Ce l’ha fatta. È lui il capitano. Proprio come Ulisse.
Io capitano potrebbe effettivamente essere il film che rappresenterà l’Italia agli Oscar?