Recensione Killers of the Flower Moon

Di Samuele Lupi

Tra meno di un mese un signore di nome Martin Scorsese compie ottantuno anni, ma nulla sembra fermarlo. Dopo quasi sessant’anni di carriera, il regista italoamericano torna sulla cresta dell’onda con il film presentato in anteprima mondiale all’ultima edizione del Festival di Cannes 2023, lo scorso 20 maggio, intitolato Killers of the Flower Moon, adattamento cinematografico del romanzo Gli assassini della terra rossa.

Lo abbiamo visto raccontare storie, per anni, spaziando tra i più disparati generi cinematografici. Dai suoi amati gangster movie, come Good Fellas, al thriller di Shutter Island, e ancora dal noir predominante in Taxi Driver al poliziesco di The Departed. Decenni di film accomunati dall’amore per il cinema da parte di un regista che il cinema lo divora, lo respira, lo accoglie intimamente. Ed anche in Killers of the Flower Moon è così. Il prodotto con cui Scorsese si affaccia in modo inedito al genere western. Forse il genere più rappresentativo del cinema americano, con i grandi racconti di frontiera. 

Siamo negli anni ’20 e i membri della tribù di nativi americani, conosciuti come Osage, della contea omonima nell’Oklaoma, sono in pericolo. Tratta da una storia vera, la non prevista eredità del popolo Osage, ha previsto che essi vivessero in una terra ricca di petrolio. Purtroppo le ricchezze attirano gli avidi, incarnati dai bianchi che, in modo subdolo e “inedito”, rispetto agli altri film del genere, tentano di rubare le loro risorse economiche insidiandosi nelle loro case. Come dei parassiti. L’uomo bianco a caccia dell’oro nero. Un lungometraggio che riesce elegantemente ad ibridare il genere western ad un film d’inchiesta.

L’ “originalità” sta nel fatto che, se solitamente i racconti americani ci hanno abituato a scontri a “campo aperto” tra i bianchi e i cosidetti “pelle rossa”, in questo caso, come storicamente accaduto, le misteriose uccisioni degli allora chiamati “indiani d’America” sono dei semplici omicidi di carattere ereditario. I caucasici uccidevano i nativi, facendo passare i delitti per suicidi o incidenti tragici, dopo averne sposato le figlie o altri membri familiari per appropriandosi dei loro averi. 

Scorsese, per la prima volta, mette in scena, insieme, i suoi due feticci Robert De Niro, con cui iniziò a collaborare nella pellicola Mean Streets del ’73, e Leonardo DiCaprio, il cui sodalizio ha origine nel 2002 con Gangs of New York. Ma non li monumentalizza, anzi, li distrugge, con due personaggi negativi.

Perfido, calcolatore e manipolatorio, De Niro, solitamente il gangster per eccellenza del regista, nei panni di Willian Hale, è l’avido burattinaio della vicenda. E anche DiCaprio, non è esattamente il carismatico antieroe di The Wolf of Wall Street, ma interpreta un viscido “alleato” (manipolato) di suo zio William. Scorse tenta di riportare solo quest’ultimo sulla via della moralità, con qualche senso di colpa e del sano rimpianto. Ma sembra non bastare. La loro recitazione è, comunque sia, senza sbavature e degna dei nomi che portano e che per anni ci hanno ammaliato.

Come detto prima, Scorsese torna, sì, sulla cresta dell’onda, ma questa onda sembra più un’onda anomala… uno tsunami di narrativa e tecnica cinematografica, che appare però infinito. Forse questa è l’unica vera pecca del film. Probabilmente, il racconto di questa epopea americana non giustifica tre ore e mezza di durata. Soprattutto nel blocco centrale del film, una piccola e leggera scrematura non avrebbe fatto un torto a nessuno.

Per il resto, c’è davvero bisogno di dire qualcosa in merito alla regia? C’è la necessità di complimentarsi per la magnetica fotografia del film? O considerare quanto sia bella la colonna sonora, magari? No, non serve, ma questo perché forse abbiamo iniziato a dare per scontato il suo lavoro. Siamo quasi assuefatti dal suo essere artista prima che regista, ed è possibile che abbiamo iniziato a notare solo i “difetti”, mettendo da parte la sua maestria, solo perché quest’ultimo, nonostante sia un bel film, non è il suo film migliore.

No! Killers of the Flower Moon non è il suo miglior film e non è nemmeno sul podio dei suoi film migliori. E anche se fosse fuori dalla sua top 10, questo non gli toglierebbe nulla, perché è solo un altro bel film di Martin Scorsese. È solo un’altra grande storia, raccontata da un signore, ormai anzianotto, che si concede un cameo personale sul finale dell’opera, ribadendo a gran voce il mostro sacro che è.

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