recensione SALVATE IL SOLDATO RYAN

di Samuele Lupi

È il 1944. Normandia. L’esercito americano è approdato sulle coste francesi creando lo storico varco per accedere nel cuore dell’Europa.

Questo è il contesto in cui si svolge la narrazione del film “Salvate il soldato Ryan”, lo spettacolare racconto di guerra diretto da un monumentale Steven Spielberg.

Alla notizia della scomparsa del soldato Ryan, i cui fratelli sono caduti valorosamente in battaglia, arriva l’ordine, dai più alti vertici dell’esercito americano, di un’operazione di salvataggio nei confronti del disperso.

John Miller è il capitano della compagnia C del secondo battaglione Ranger ed è proprio a lui che viene affidato il delicato incarico. Così seleziona alcuni commilitoni che, scettici di dover rischiare la propria vita per un solo uomo, partono per la missione.

Uno dei punti di forza del racconto è stato creare quell’aspettativa che traina il film per più di metà della sua durata, non mostrando effettivamente Ryan, protagonista del film, come è chiaro già dal titolo, lasciandoci solo immaginare se egli possa essere ancora vivo o, al contrario, morto.

Un protagonista fortemente presente nella sua assenza, interpretato da Matt Damon, che lascia spazio alla vera grande figura della trama, altrettanto centrale: il capitano Miller, grazie ad un ispiratissimo Tom Hanks che ne ha fatto le veci.

Un altro punto di assoluta forza è il crudo realismo, o meglio iperrealismo, messo in scena dal regista, sulla condizione bellica e di quelle che sono state le vittime della Seconda Guerra mondiale. Basti pensare ai primi 20 minuti del film, esclusivamente incentrati sulla rappresentazione dello sbarco, con un’estetica che si discosta da quella del cinema classico, ma piuttosto preferisce fornire macabri dettagli allo spettatore in modo fedele, con l’obiettivo di disgustarlo, allontanandosi dalla solita pellicola propagandistica sul militarismo americano e rendendolo non un film di guerra ma un film contro la guerra.

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