recensione SEVEN
di Samuele Lupi
Il regista David Fincher nel ’95 ha curato le riprese del film “Seven”.
All’anziano esperto detective William, prossimo alla pensione, viene dato incarico di risolvere un inquietante caso con la collaborazione di un collega più giovane di nome David Mills.
I due, tanto diversi e non fin da subito cordiali tra loro, rispettivamente interpretati da Morgan Freeman e Brad Pitt, sono alla caccia di un serial killer che agisce scegliendo le proprie vittime sulla scia dei sette peccati capitali, ritenendosi colui che deve punirli.
La trama rientra perfettamente nel genere del thriller, costruendo la narrativa attorno alla figura del killer seriale. I due protagonisti, invece, appaiono un po’ come gli ennesimi agenti stereotipati del genere poliziesco: William è anziano, solo e rassegnato, mentre David è giovane grintoso e avverso al protocollo.
Nonostante ciò, Fincher attribuisce loro una personalità e una storia, ossia quella di due persone che hanno a che fare con la parte più brutale del mondo e della società in cui un po’ tutti viviamo.
Il film trascina il pubblico in una spirale di inquietudine, data dalla costruzione e rappresentazione dell’atmosfera e degli ambienti in scena, ma anche dall’attesa che cresce nello spettatore mentre attende le vittime future, sapendo che dovranno essere sette come i vizi. Essi sono in un certo senso dei coprotagonisti, mettendo noi tutti faccia a faccia con le nostre meschinità ormai accettate, normalizzate ed interiorizzate.
Un finale a sorpresa che ribalta gli standard hollywoodiani dei polizieschi: nessun lieto fine.
In merito alla citazione di Hemingway “Il mondo è un bel posto e vale la pena combattere per esso” William risponde “condivido la seconda parte”.