recensione DAHMER

di Samuele Lupi

1960. Wisconsin, Stati Uniti, nel comune di Milwaukee nacque Jeffrey Lionel Dahmer, spietato serial killer che si rese responsabile di diciassette omicidi tra il ’78 e il ’91.

“Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer” è il titolo della serie che ne racconta la vita e gli omicidi.

Netflix decide di dare forma a una delle storie più cupe della cronaca nera americana, garantendosi un record di streaming in due settimane, 300 milioni di ore, inferiore solo alla quarta e ultima stagione di Stranger things, di 335.

Una trama ansiogena che incute terrore nello spettatore, non avvalendosi tanto dello splatter come di consueto, ma giocando sulla cupezza degli ambienti claustrofobici rappresentati, basti pensare al palazzone popolare in cui vive il protagonista, dalla forma architettonica quasi carceraria, ma anche sulla musica, che rimanda alla negatività esistenziale del killer.

Riguardo a lui, una nota di merito d’obbligo va all’inquietante e realistica interpretazione di Evan Peters, totalmente calato nella parte, senza particolari sbavature.

La serie tenta di raccontare, tramite repentini salti temporali, la vita del “mostro” prima di diventare tale, soffermandosi sulla ricerca della propria sessualità e sul rapporto con una madre problematica e un padre che, involontariamente, è stato il primo a metterlo di fronte all’ossessione del figlio per la profanazione di cadaveri, inizialmente animali.

Il regista Ryan Murphy, mette in scena una storia brutale ben raccontata, con scene fortemente simili ai fatti di cronaca, come quella in tribunale, con la pecca di rallentare il flusso narrativo con un così vasto uso di flashback.

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