RECENSIONE LE OTTO MONTAGNE

di Samuele Lupi

Un racconto nepalese insegna che il mondo è una sfera composta da otto montagne, quasi come fossero degli spicchi. Tra di esse sorge la montagna al centro del mondo. Alcuni sono fatti per viaggiare per le otto montagne, altri per stanziare su quella di mezzo.

Le otto montagne. Il film tratto dal romanzo di Paolo Cognetti che si è aggiudicato il Premio Strega nel 2017, presentato all’ultimo Festival di Cannes e vincitore del Premio della Giuria, racconta la vita di due ragazzi tanto diversi quanto simili, uniti da un’amicizia indissolubile.

Pietro e Bruno sono due bambini quando si conoscono. Il primo viene da Torino, il secondo è cresciuto tra le montagne valdostane, dove è ambientata la trama. Durante l’estate, il primo è solito trascorrere le vacanze nella località alpina e i due diventano inseparabili. Tuttavia, la vita li allontana e per ben quindici anni nessuno dei due avrà notizie dell’altro. Sarà una triste circostanza quella che li riunirà, ossia la morte del padre di Pietro, con cui quest’ultimo ha avuto un rapporto difficile, al contrario di Bruno, che avendo un rapporto complicato con il proprio, ha visto in lui una vera figura paterna. Tale figura porterà i due a riconciliarsi, sconfiggendo un destino beffardo che li aveva un tempo separati.

Bruno è un uomo semplice, “montanaro” direbbe lui stesso, per una vera vocazione, quasi religiosa, per la montagna. Unico ecosistema in cui potrebbe sopravvivere. Si reincarna nell’uomo sulla montagna al centro del mondo. Per lui il concetto di natura è astratto, esiste solo ciò che può essere toccato con mano, di tangibile, come un ruscello, un sentiero o un bosco. Un concetto complicato per chi arriva dalla città come Pietro che, a metà tra un uomo e un ragazzo, parte, torna e riparte, esplora, si arricchisce di esperienze: è l’uomo che viaggia per le montagne.

Luca Marinelli e Alessandro Borghi, si ricongiungono dopo il film del 2015, Non essere cattivo. L’alchimia interpretativa dei due crea una sinergia vincente. La loro espressività è delicata e funzionale. A Borghi spetta l’arduo compito del dialetto ai piedi del Monte Rosa, mentre Marinelli dà vita ai silenzi dell’altro, con la profondità dello sguardo magnetico che lo caratterizza.

Se la città è descritta come un luogo ostile, i registi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch regalano un’immagine contemplativa delle montagne, con una fotografia in 4:3 che la rende pittoresca e avvolgente. A completare l’opera, c’è la musica dello svedese Daniel Norgren, che attribuisce al paesaggio una dimensione suggestiva e sacrale.

La favola “Il topo di città e il topo di campagna” di Esopo, sostituendo il secondo con uno di montagna, avrebbe insegnato che la vita fuori dai confini urbani è garanzia di serenità. È davvero sempre così?

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