RECENSIONE BABYLON

di Samuele Lupi

Feste a base di sesso, droga e alcol, il paradiso e i sobborghi di Los Angeles e tante citazioni cinematografiche: semplicemente Babylon.

Damien Chazelle, dopo il successo di La La Land e Whiplash, torna al cinema con un film che ha diviso la critica e per molti è già una garanzia di successo.

Siamo nella Hollywood degli anni ’20, in una trama che racconta l’ascesa e la caduta di diversi personaggi, il tutto accompagnato da sfrenatezza, depravazione e smodatezza. Un film metacinematografico che coraggiosamente fonde comicità, dramma e volgarità.

Una scena iniziale della durata di quasi mezz’ora che apre, letteralmente, le danze. Un inizio che potrebbe ricordare quello de La grande bellezza di Sorrentino, per citare un titolo nostrano e continua con una rappresentazione dell’industria del cinema che abbraccia quella di C’era una volta a Hollywood di Tarantino. Non è un caso che tra gli ottimi interpreti ci siano Brad Pitt e Margot Robbie.

Di Los Angeles vengono mostrate ferocemente le due facce della medaglia, dall’Olimpo delle star del grande schermo agli ambienti più squallidi, come l’angelo e il peccato, presentate tuttavia da rendere difficile la distinzione tra le due cose.

La sregolata descrizione della fondazione di Hollywood, quella delle vecchie case di produzione che monopolizzavano quel mercato, come la MGM. E ancora, la rivoluzionaria morte del cinema muto, con il richiamo al primo lungometraggio sonoro della storia Il cantante di Jazz del 1927, fino ad arrivare, venticinque anni dopo, al film musicale del ’52 Cantando sotto la pioggia di Donen e Kelly.

È interessante la regia, caratterizzata da un caotico uso del montaggio, con repentini virtuosismi e stacchi inaspettati, assistiti da un accompagnamento musicale che vale il prezzo del biglietto e una fotografia che addolcisce le ben tre ore di mobilità dello spettatore in sala.

Che dire, un bel film che riversa nell’eccesso la sua cifra stilistica e, forse, anche la sua ambizione.

 
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